Vino&Mito

13 feb

Vino&Mito

CIPRIGNO, IL VINO DEDICATO ALLA DEA VENERE.

Il grande Luigi Veronelli era solito raccontare come «un vino non fosse solo un vino». Come Veronelli, alla ‘Vinicola del Sannio’ siamo fortemente convinti che ogni vino è testimone del luogo dove viene prodotto. Ogni vino è espressione di un territorio, ne racconta la storia, l’evoluzione, le trasformazioni. Non è solo un prodotto dell’agricoltura, un prodotto economico, ma è anche testimone di valori culturali e identitari, capace di evocare tradizioni, storie, miti.
A Castelvenere è antico il legame linguistico tra vini, uomini e territorio. Il nome di questo piccolo paese – che deve la sua stessa esistenza alla vigna – diventò noto nello scenario vitivinicolo del Bel Paese nei primi decenni del Novecento. Nel periodo tra le due guerre mondiali i cantinieri castelveneresi propagandavano con orgoglio un vino bianco che chiamavano Ciprigno. Era il loro un fortissimo gesto di amore per la propria terra, al nome del paese rievocante la dea Venere.
Secondo l’antico poeta greco Esiodo, Venere nacque dalla spuma prodotta in acqua dai genitali recisi di Urano, quando furono gettati nel mare. Quando la dea raggiunse la riva, dell’isola di Cipro, trovò ad accoglierla Eros (Cupido), mentre al suo passaggio dal suolo spuntavano fiori. È perciò anche chiamata Ciprigna, in  quanto l’isola del Mediterraneo si vanta di averla vista nascere.
«A tipicizzare questo vino – si legge nel libro ‘Vigneto Castelvenere’ di Pasquale Carlo – era forse un particolare procedimento, caro ai vinificatori castelveneresi, che richiamava fortemente la tecnica del “governo alla toscana”, messa a punto dal barone Bettino Ricasoli (lo stesso che definì la “formula” del vino Chianti) nella seconda metà dell’Ottocento».
Questa tecnica, in realtà ideata per i vini rossi e che oggi è stata ripresa da diverse cantine toscane, prevede una lenta rifermentazione del vino appena svinato con uve leggermente appassire. I produttori castelveneresi la attuavano, invece, per ottenere un vino bianco, che era generalmente composto con le uve malvasia, trebbiano, greco e agostinella (quest’ultima uva rappresenta un’unicità dello scenario ampelografico castelvenerese). In partenza si raccoglievano le uve per fare questo vino anticipando di qualche giorno la maturazione ottimale, per fare in modo che le stesse mantenessero un buon tasso di acidità (è da tenere presente che le fasi di maturazione non erano le stesse per le uve impiegate). Sui tralci venivano lasciati i grappoli più sani e belli, per farli giungere ad una maturazione ottimale Nelle annate segnate da buone condizioni meteo questi grappoli venivano lasciati appassire direttamente in vigna. La variante prevedeva che, dopo la raccolta, i grappoli venissero fatti appassire su graticci di vimini o appesi in ambienti ben areati. In qualche caso i viticoltori recidevano la parte inferiore dei grappoli, che venivano poi appesi capovolti, assicurando in questo modo la migliore areazione fra i chicchi. Dopo un periodo di circa un mese e mezzo queste uve venivano pigiate e il liquido ottenuto veniva aggiunto al vino precedentemente lavorato Si faceva così partire una seconda fermentazione, che si interrompeva quando la presenza di zuccheri variava da 2,5 grammi a 1 grammo per litro, a seconda del gusto dolce desiderato. A questo punto il vino andava messo in bottiglia. Al termine del processo si aveva un vino fruttato, di buona acidità e leggermente frizzante.
Il nome scelto per identificare questo vino fu senza dubbio una scelta quanto mai indovinata, un legame stretto tra vino e territorio che servì anche a evitare copiature e imitazioni del singolare processo produttivo che dava origine a quel nettare dedicato al nome dell’amato paese.