Coda di volpe, uva misteriosa.

25 mag

Coda di volpe, uva misteriosa.

CAUDA VULPIUM

Nella famosissima favola di Esopo, la volpe e l’uva sono protagoniste di una storia il cui insegnamento morale è quello di non denigrare ciò che non si riesce ad avere. Tra le vigne del Sannio, la volpe e l’uva si fanno un tutt’uno, plasmandosi in grappoli da cui nasce il vino bianco storicamente più rappresentativo dell’intera Campania. Coda di volpe, uva il cui nome deriva dal latino “Cauda Vulpium”, proprio ad indicare la forma caratteristica del grappolo, che presenta una curvatura nella sua parte apicale che ricorda, appunto, la coda di una volpe.
L’origine del nome del vitigno, che richiama la forma del grappolo, ha permesso di seguire il cammino compiuto dallo stesso nel corso dei secoli, mantenendo la certezza della sua identità. Le sue origini sono probabilmente greche e la sua presenza nella penisola italica è accertata già in epoca romana. Difatti è citata nel I secolo d.C. da Plinio il Vecchio nel suo monumentale ‘Naturalis Historia’, dove scrive «Minus tamen, caudas vulpium imitata, alopecia», laddove parla dei vitigni adatti ad essere allevati con il sistema della pergola. Giovan Battista della Porta, per primo (1584), non ha difficoltà a sostenere la sinonimia tra il coda di volpe e la pliniana “vitis alopecis”. Successivamente, anche gli ampelografi del XIX secolo (Giuseppe Frojo) e dell’inizio del XX (Giovanni Emilio Rasetti e Michele Carlucci) ne danno descrizioni che combaciano perfettamente con l’uva conosciuta dai Romani.
Tuttavia, la storia di questo vitigno autoctono è stata piuttosto travagliata. Per tantissimo tempo accostato al Pallagrello, lo troviamo descritto con questo termine nei più grandi trattati di ampelografia moderna. Frojo, nell’opera ‘Il presente e l’avvenire dei vini d’Italia’ (1876), parla della “pallagrella bianca” come l’uva che caratterizzava fortemente i vini prodotti a Pannarano e Cerreto Sannita, considerati i migliori bianchi allora prodotti nella provincia di Benevento. Sempre Frojo, descrivendo le uve coltivate nella vicina Piedimonte d’Alife, associava a questa uva il sinonimo di “coda di volpe bianca”, tracciando un identikit dell’uva perfettamente corrispondente alle uve coltivate oggi nelle campagne dei viticoltori che sono storici conferitori de ‘La Vinicola del Sannio': «Grappolo cilindrico, molto allungato, semiserrato; acino piccolo, pochissimo ovale; stipite lungo, erbaceo – Foglia: mezzana, 5 lobi, il mediano molto spiccato, due seni piccoli, tondi, chiusi, denti grossi, acuti, glabra nelle due pagine, seno della base semichiuso, picciuolo rossastro, 2/3 n.m. – Tralcio: rigato, rossastro, sottile, internodi corti – Buccia: pruinosa, biondo dorata, semicoriacea – Polpa: carnosa, succulenta – Sapore: dolce».
La tradizionale presenza di questo vitigno, che negli anni Settanta era tra quelli maggiormente coltivati nel Sannio, è finita sotto la scure della crescente diffusione del vitigno falanghina e, in misura minore, di quelli fiano e greco. Eppure, la fortuna di questi vitigni è legata molto al lavoro dell’uva coda di volpe, sconosciuta fuori dalla regione e storicamente utilizzata come uva da taglio, per smorzare l’elevato tasso di acidità di falanghina, fiano e greco, accentuata ulteriormente dalla natura dei terreni, quasi ovunque fortemente condizionati dall’intensa attività vulcanica.
La sopravvivenza del vitigno coda di volpe nel Sannio è legata alla storia di un appassionato produttore della vicinissima Massa di Faicchio, Mario Gismondi, che con impegno e caparbietà riscoprì le ottime peculiarità di questa antica varietà da cui si ricava un vino di corpo medio, dorato, tenue nei profumi, ricco di alcol e non troppo ricco di acidità.
La coda di volpe è un’uva misteriosa, le cui potenzialità sono ancora tutte da scoprire e che ha ancora molte cose da raccontare. È un’uva operaia, il cui destino ricorda quello toccato alla genovese, il piatto che maggiormente identifica Napoli e la Campania. Un piatto poco conosciuto fuori regione, dove la cucina partenopea è identificata con il ragù. Invece, questa salsa di cipolle e carne, inventata forse da un monzù di Ginevra (Genève, da cui potrebbe derivare il nome) o, per caso, da portuali genovesi di stanza al Beverello, è il vero piatto della domenica nelle famiglie, presentato a tavola con gli ziti spezzati. Proprio come questa ricetta, anche la coda di volpe è oggi un’uva diffusa in tutte le cinque province, molto amata dagli appassionati, ma ancora misteriosa fuori dai confini della Campania.
La coda di volpe è un’uva resiliente che è riuscita a sopravvivere alle minacce e a dimostrare la sua estrema forza, da cui ‘La Vinicola del Sannio’ ottiene un bianco dal fascino antico e dal volto moderno. Antico perché capace di trasmettere con immediatezza tutta la sapienza dei viticoltori sanniti. Moderno per la sua tipicità e per la sua straordinaria abbinabilità ai piatti della cucina campana.